venerdì 21 agosto 2015

Della migliore delle torte

torta di pesche e mele


La sensazione più gradevole che provo nelle ultime mattine è svegliarmi e sentire freddo, rannicchiarmi nel plaid blu a stelle e indugiare ancora nel letto. È questa l'estate che preferisco, quella delle giornate calde che trovano pace verso sera, quella che ti permette di vivere pimpante e che immagonisce - seppur in modo lieve - quando il buio arriva sempre un po' prima e inizia a farti assaporare l'autunno che scalpita di foglie secche, pozzanghere, bimbi con zaino e grembiulino, trasmissioni demenziali in tv e colori caldi.

Ho qualche difficoltà a dormire perchè le preoccupazioni, una manciata di paure e le troppe scadenze mi avviliscono; mi basta avere degli orari sballati un paio di giorni per subirne le conseguenze per il resto della settimana. Mi sento in parte sconfitta, in parte anestetizzata ad alcune mancanze  - quella di prospettive e buoni propositi in primis - e subisco i miei stati d'animo più fragili e precari in modo impattante, in modo inaspettatamente feroce.

E non vorrei che fosse così.

Ho dovuto prendere atto dell'amarezza inflitta dai fallimenti, della natura sgraziata di ciò che ferisce mortificando, dell'errore che ho compiuto a dedicare me stessa e il mio tempo a chi attrae folle mentendo, a chi finge drammi mai subiti, a chi parla sempre e solo in prima persona, a chi si arroga il diritto di trattarti come una comproprietà e si accanisce per capriccio, usandoti come pretesto per godere del privilegio di avere qualcuno di cui (s)parlare.
Faccio spallucce, c'est la vie, cos'ho perso?

Praticamente niente, abitanti di un paesello immaginario, radunati a portare in processione santi e madonne non per devozione, ma per far baldoria ad una sagra di dubbio gusto. Devi far parte del branco, ma io da sempre ballo e corro da sola e ci sono decaloghi in calce ai quali non metterò mai il mio nome.

Non tutte le ciambelle riescono col buco, non tutti gli impasti - anche quelli più meticolosi e dall'aspetto più invitante - diventano poi una bella torta.
Cosa devo imparare allora?
Devo dedicarmi all'accettazione di ciò che non posso cambiare, devo abbandonare la pretesa di indulgenza da parte di chi ne esige guardandosi bene dal darne, devo comprendere la differenza tra sbaglio, errore, crimine e colpa evitando di crocifiggere solo e soltanto me stessa e chi amo.
Nel corso dell'ultimo anno ho scoperto che il bisogno di sopravvivenza può rendere cinici, spietati, ciechi. Ho provato diffidenza e scetticismo immediati nei confronti di alcuni e non mi sono sbagliata.
Sono stata invece travolta da un bene assoluto e indissolubile che Altri non mi hanno negato anche quando era assurdo e apparentemente insensato concedermene.
Ho sbagliato, ho subito degli sbagli e ho scelto di non gettare la spugna, di lottare contro tutto e tutti pur di inseguire un sogno nel quale ero rimasta l'unica a credere. E oggi posso dire che nell'apparente scelleratezza dell'insensato vi era una profonda ragione che meritava ognuna delle sue speranze, meritava un miracolo, meritava di non spegnersi.
Ancora provo imbarazzo, fatico a farmi viva con spontaneità e naturalezza. Non mi fido, tengo per me ogni dettaglio perché non so reggere i giudizi approssimativi così come nuovi errori di (soprav)valutazione. Coltivo pochi rapporti preziosi che hanno saputo proseguire con genuinità, ma sono ben cosciente di aver chiesto tutto e di essere ora in debito.

Alcuni mi danno la nausea.
Alcuni non mi danno pace.
Alcuni mi danno sui nervi.
Alcuni, boh, chi cazzo li ha mai capiti.


Una torta che non riesce non è un fallimento, non è che un tentativo andato a vuoto: e non ha senso morirne. Qualcosa nato da uno slancio può anche non durare, può finire, può non avere più motivo di esistere. Allora è negli sbagli che si nascondono gli insegnamenti più sinceri capaci di marcare - nel bene e nel male - per la vita intera.

Allora è proprio questa la mia torta più preziosa, quella che mi ha fatta sentire incapace, imbranata, fallita e sconfitta, quella che ho soltanto assaggiato prima di gettarla senza esitazione, quella che non ho potuto né condividere né donare, quella che ha ridimensionato la mia vanità, le mie certezze, ciò che davo per scontato e che sapevo fare come pochi.

La migliore delle torte è quella la cui fotografia non è mai stata eliminata. Quella bruciata attorno ai bordi, cruda e molle al centro e impossibile da disporre in un piatto senza perdere tutta la parte superiore rimasta attaccata al coperchio. Quella boicottata da quello stesso bastardo di forno che ho elogiato proprio pochi giorni fa, quella che profumava come un bel sogno e che mi ha tramortita come farebbe la brutta notizia che non immagineresti mai di ricevere.

Adesso vorrei solo imparare a ripristinare la speranza, liberarmi del male allo stomaco più molesto, arrogarmi il diritto di vivere con maggiore quiete, equilibrio e armonia; ricominciare a costruire qualcosa di solido, duraturo, qualcosa che mi renda fiera e col cuore colmo di gioia: perché sono stanca fino a sentirmi esausta. Ed è quasi settembre, il solito maledetto inizio dell'anno, fradicio di aspettative, necessità, possibilità e bisogni.



1 commento:

  1. Buona, ma soprattutto genuina, se solo si riuscisse a fare qualche disegno...

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